Viviamo in un’epoca visivamente satolla: ogni giorno siamo immersi in immagini belle, perfette, curate. Sui social, nelle gallerie, nelle fiere. Ma c’è una domanda che mi torna spesso alla mente, come un tarlo:
“Questa opera è arte… o solo decorazione?”
Non è una provocazione snob. Anzi, è un interrogativo sincero che nasce da una mia esigenza personale: quella di riconoscere, distinguere, capire dove si trovi il confine — o forse il varco — tra lo stile e l’Arte.
Lo stile, l’estetica, il linguaggio formale… sono importanti. Sono strumenti. Ma se non sono sostenuti da una necessità espressiva, da un’urgenza interiore, da una verità, rischiano di essere solo superficie: immagini piacevoli, magari tecnicamente impeccabili, ma vuote.
Ricordo una mostra che visitai nel 2024 a Trieste, “Un mare di carta”: le opere erano splendide, perfettamente composte, con cromie seducenti e forme accattivanti. Ma non provai nulla. Nessun movimento interno, nessun attrito. Era tutto così “giusto” da risultare, paradossalmente, insignificante.
Tuttavia, apprezzai il gesto stilistico e mi resi conto che, pur trattandosi originariamente di pubblicità, il tempo le aveva caricate di una forza evocativa capace di rimandare a epoche passate.
Non voglio sminuire l’aspetto decorativo. Anche la decorazione ha una sua dignità e utilità. Può abbellire un luogo, creare armonia, trasmettere leggerezza. Ma l’arte, quando è davvero tale, fa qualcos’altro: entra, destabilizza, apre.
Per questo quando guardo — o creo — qualcosa, mi pongo sempre la stessa domanda:
“Questo lavoro è solo bello?”
Se è necessario, anche se imperfetto, anche se scomodo, allora vale.
Altrimenti, è solo un’illusione lucida. E alla lunga, dimenticabile.
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